martedì 30 ottobre 2007

Trovare le parole, tra ascolto e scrittura



















di M.M.

Sento che vivere è viaggiare, e viaggiare è crescere. Sento che occorre un mutamento nel paesaggio. Sento che è fondamentale un mutamento nel cuore"
Anna Maria Ortese - Corpo Celeste
Il mio cuore (chiamiamolo così quest’effervescente ascoltare)
Salvatore Toma – Canzoniere della Morte

C’è come uno stato pigro che conferma il se malato, che ferma l’agire, lo incanta in un andare e venire dei pensieri che si fanno mormorio dell’io. L’artista si distacca dall’opera per contemplarla, così per la cura, posso fare di me l’oggetto dell’opera. Chiedere alla terapia di farsi opera è fare della cura un’esperienza creativa, un cammino di maturazione, capace di affinare autostima, capacità relazionale, ma anche vocazioni e attitudini; fortificare il paziente nel suo diventare autore di se, in una acquistata consapevolezza, dentro una possibilità nuova di concepirsi. Tante sono le resistenze, che la proposta di un agire creativo trova da parte del paziente. Sentirsi inadeguato, non all’altezza, scarso, di non valore, o pigro, aver paura di esporsi, vergognarsi, aver timore del contatto… sono spesso segni di una difficoltà di sentirsi creativi, di poter essere soggetti capaci di creare, di oggettivare sé, di andare oltre il sé, di abbandonarsi nell’opera. E allora quali strumenti? La poesia porta mistero e svelamento cuciti insieme, nell’intenzione del dono. E’ carne che osa, scoperta della sua materia sensibile, dicente, significante. Teatro è la poesia: rappresenta e suona nel verso, inaugura senso, sorprende, intona e spiazza, dispone all’ascolto, costruisce immagini e nutre immaginari. L’intento dell’introduzione di pratiche di scrittura nei luoghi di terapia e di cura è quello di sollecitare, o forse meglio, insinuare la possibilità di un incontro con la materia poetica la propria sottesa e mormorante, frustrata e bandita dalla malattia che nega nel suo vortice la possibilità espressiva e quella dei poeti, degli artisti, di chi nel dolore ha saputo trovare la possibile via d’un riscatto espressivo che continua a nutrire nel farsi opera. Scrittura e l’autore sono e e si fanno corpo unico (altro) con cui prender contatto. Stabilire una sintonia, una conoscenza capace di divenire nuova parola, di trasformarsi in atto proprio, in azione. Rinfranca sentire l’opportunità d’un disagio condiviso, di sensibilità capaci di sublimare dolore ed emozione, di scavare nell’inquieto sé. Rinfranca sapere: scoprire biografie e con loro la natura d’un versificare stretto alla vita, scrivente la vita. [Chi è il poeta? Quale vita è la sua, cosa gli è toccato, quale il destino? E, come la scrittura lo ha nutrito, accompagnato, risollevato, consolato o riscattato? E’ utile scrivere?]. Trovando l’altro racchiuso tra pagine di versi, scambiare con l’autore il sentire, l’emozione, ciò che è ispirazione, in-canto, appropriarsene, farsi parlare, quando mancano le parole – o le parole sono nell’incantamento mormorante d’un io chiuso – bloccato nel disagio, nella contemplazione d’un atto incapace di generare.


Appetiti di Caroline Knap




La fame delle donne
di V.D.L.

“Appetiti” è un libro sulle donne, sul meraviglioso e talvolta enigmatico universo femminile del quale l’autrice, Caroline Knap, è un attenta osservatrice. L’autrice riesce infatti a tirar fuori il disagio, l’inquietudine, a sviscerare nelle coscienze di donne che faticano ad abitare nel proprio corpo. La sua, è un indagine socio-culturale ,ma è soprattutto un ‘autobiografia sull’ esperienza di una donna che non si è mai sentita nutrita abbastanza, ha scelto di soffrire la fame per poi “sfamarsi” con i suoi “pasti scheletrici”. E’ un opera nella quale aspetti differenti, quello culturale e sociale, quello strettamente personale e non,quello storico-politico si fondono perfettamente creando un’armonia narrativa che appassiona il lettore. "Appetiti” infatti può diventare una “lettura bulimica” di pagine, frasi, parole, che ogni giorno si divora con trasporto, perché tutte le donne potrebbero e dovrebbero sentirsi più sazie! Ma fino a che punto una donna si concede di essere affamata ,in tutti i sensi della parola? ...E’ proprio questo fondamentale interrogativo, la base, il punto di partenza attraverso il quale la Knap sviluppa la sua analisi, il suo pensiero espresso attraverso un gioco di intrecci su storie di altre donne e di critiche verso un mondo, una società come la nostra che vive di cultura visiva, dove c’è un divario tra la voce del desiderio e quella del divieto. Secondo l’autrice infatti “le donne sono il genere nato e cresciuto con l’idea che l’appetito femminile sia ridotto e limitato”: ogni donna vorrebbe esercitare un livello di controllo su di sé, su come e cosa mangiare,su come apparire, su come vivere; è una battaglia quotidiana contro tante inibizioni che spaventa ,che rende tutte molto insicure. Sazietà, nutrimento, appetito, nozioni che solitamente vengono associate all’immagine del cibo, sono in realtà concetti metaforici ,perché gli appetiti delle donne riguardano “una costellazione più ampia di voglie e di bisogni”. Riguarda l’esigenza di sentirsi accolte nel proprio involucro, il desiderio di trovare una pace fisica e mentale nella ricerca di un equilibrio tra fame fisica e fame emotiva, ma soprattutto riguarda il disperato bisogno di amore, di tenerezza, e della triste consapevolezza circa le proprie fragilità di fronte ad un mare di sopraffazioni e di diveti. “Le donne piangono per i propri bisogni insoddisfatti ,mentre si dedicano a soddisfare quelli degli altri” e la carne si sostituisce alle parole, il corpo alla voce, perché esso spiega l’inesplicabile.
Ecco la ragione che spinge Caroline Knap a mettere in luce anche storie di altre donne che usano il corpo come voce di un ‘intima sofferenza. Si tratta di donne bulimiche spaventate dalla quantità di bisogni di cui necessitano e che si soffocano nel vomito per il disgusto di sè nel tentativo di eliminare quell’oceano di angoscia e sofferenza, donne con una lunga storia di promiscuità di un ossessione sessuale spinte dal bisogno di trovare un identità precisa per la propria vita, donne con un passato di dipendenza dallo shopping,donne ,donne ,e ancora donne ... L’angolazione più affascinante e forse quella maggiormente contraddittoria che spicca per la notevole accezione critica dell’autrice riguarda lo scontro tra cultura e sé, tra debolezza soggettiva e potenza collettiva :lei anoressica spettatrice del movimento femminista. Il momento della “Trasformazione”, esaltato ed elogiato in un primo approccio perché di fatto consegna alle donne diritti e libertà fino a quel momento negate (quella sessuale,individuale...), ma poi attaccato e ridimensionato poiché perde la sua essenza, dando luogo ad una degenerazione. Secondo l’autrice l’attivismo femminista non ha funzionato completamente perché si è scontrato con un passato fatto di tradizioni fortemente radicate nella coscienza di tutti, perché in verità le pulsioni del sesso femminile non sono state considerate, perché di fatto si è assistito ad una mercificazione nel periodo post-rivoluzionario. “Il mondo è ancora ambivalente sul potere femminile perché in realtà esso si mobilita tutt’ora al servizio dell’appetito maschile”: le donne esistono per il loro piacere! Questa vena pessimistica ma lucida pervade l’emozionante e travolgente libro di Karoline Knap, che fa della sua opera una ricerca autentica e veritiera del misterioso mondo femminile, fatto di inquietudini, sofferenze, disagi, inadeguatezze, insufficienze, mancanze, ma anche di rivincite, di rivalse, di speranze, stessi sentimenti questi, che spingono l’autrice a percorrere un cammino che la condurrà verso la lunga strada della guarigione. Tutto ciò costituisce l’essenza degli appetiti femminili, "il cuore della fame delle donne”.

venerdì 26 ottobre 2007

Storia di Noemi

La mia fiaba!
Quella che vi sto per raccontare è una bella fiaba, reale in ogni suo particolare tranne che nel nome della protagonista.

C’ero una volta…
Mi chiamo Noemi e sono una ragazza di ventisei anni. Sono nata in un piccolo paese in provincia di Lecce, in una famiglia apparentemente normale. Sono stata una bambina serena, forse un po’ troppo sensibile, una bambina paurosa, ma non timida. Mia madre e mio padre lavoravano ed io trascorrevo gran parte del tempo con le mie nonne - soprattutto quella materna - una zia e una prozia…la classica famiglia meridionale! Non ho avuto un’infanzia traumatica, almeno credo…Forse, a pensarci bene, tutta la mia vita non è poi peggiore di quella di tante altre. Mi ritengo una persona tranquilla, ho sempre fatto tutto il possibile per accontentare i mie genitori, per essere la figlia perfetta, la nipote perfetta, l’amica perfetta, l’alunna perfetta. Poiché nessuno è perfetto, circa dieci anni fa o forse anche più ho deciso di diventare Nessuno. A dodici anni ho cercato di ribellarmi a determinati schemi, che dovevo seguire e che non sentivo miei, ma allora e forse neanche adesso ho la possibilità di scegliere da me. Devo solo fare quello che gli altri mi dicono, anche in silenzio…un silenzio che a volte è più autoritario di qualsiasi altra parola. Come se non bastasse, fisicamente non mi piacevo, mi vedevo sempre più grossa rispetto alle mie amiche e così ho pensato bene di fare una dieta. A quindici anni iniziai la famosa “dieta del minestrone”, che nel giro di una settimana è riuscita a farmi perdere ben cinque chili, recuperati con gli interessi la settimana successiva! Da allora il mio corpo ho assaggiato la dieta del momento…l’ultima ritrovata pubblicitaria. Ero molto attenta a mascherare ad ogni persona e principalmente a me stessa che il cibo ed il mio corpo stavano per diventare un’ossessione. Quando misi un po’ di soldi da parte mi recavo in farmacia ed acquistavo (ovviamente per una mia amica) pillole e beveroni dimagranti. Non vedevo alcun risultato, ma continuavo a prenderli e sempre in dosi maggiori. Mi sentivo bene, credevo di essere cresciuta, di far parte del mondo degli adulti. Una volta dimagrita, potevo essere anch’io oggetto del desiderio dei ragazzi e come se non bastasse avrei avuto un doppio vantaggio: diventare perfetta! Ma perché non dimagrivo mai abbastanza? Ero sempre grossa…le pillole non funzionavano più da sole, dovevo aumentare l’attività fisica. Ho sempre amato lo sport, ma il movimento che facevo non bastava più. Necessitava di un potenziamento e di un aumento della frequenza. No! ero ancora troppo grossa… Sono diventata vegetariana, la pasta non la digerivo, mangiavo e poi sputavo nei tovaglioli di carta... Ma ancora tutto questo non bastava. E allora mangiavo sale per poter vomitare. Passano gli anni. L’attenzione per il cibo si trasforma in ossessione… io non volevo vedere. Le relazioni interpersonali cambiano. Ero una ragazza socievole, amavo stare in compagnia… Divento una ragazza facilmente irritabile, attenta alle calorie, alla forma fisica, che ama la solitudine. Non ho rispetto degli altri, non riesco ad avere un confronto senza che esso sfoci in un litigio e una successiva chiusura. E poi inizio a mentire anche a me stessa! Quando qualcuno cerca di giustificarmi, i sensi di colpa mi assalgono e le abbuffate crescono sempre di più. E’ difficile parlare delle mie relazioni, ho fatto male a tutti e molti mi hanno fatto male. Non so se perché loro non capivano me o se io non riuscivo a spiegarmi. Molto spesso ho rinunciato a lottare, ho percepito che i miei genitori volevano sempre che io restassi bambina e quando mi comportavo da persona adulta c’era sempre qualcosa che non andava. Non avevo previsto un dettaglio, non avevo chiesto il loro consiglio. Volevo farcela da sola! Ma se provo a diventare autonoma i silenzi dominano in casa. Come se non bastasse loro dicono che mi hanno lasciata sempre libera di scegliere ma…in modo subliminale governavano e governano la mia volontà. Per renderli felici e avvicinarmi sempre più al mio ideale di perfezione, annullo la mia volontà. Soffro troppo nel sopprimerla ogni volta…sto male. E così ho pensato bene di non sentirla più, le tolgo la voce…non riesco ad ucciderla, non riesco a sostituirla con quella degli altri. Anche muta lei parla, le parole afone mi feriscono, si ribellano ed io le ignoro puntualmente. Ora non la riconosco più, non so se la voce che sento è la mia o quella degli altri. Dentro di me c’è solo caos, vuoto, voragine, guerra. Riesco a fidanzarmi – una storia che dura ben cinque anni - ovviamente con un ragazzo che piace ai miei o così credevo! Non è mio amico, non gli vado bene, non gli piaccio così come sono. Cercavo in lui una valvola di sfogo. Credo che con i genitori un rapporto conflittuale sia anche “normale”, ma con il proprio ragazzo no. Mi chiude in casa è ossessivo e possessivo. Sto male, i miei non vedono e mi colpevolizzano, anche perché io sono muta, non parlo e poi so fingere bene: sono libertina dicono e lui fa questo per il mio bene. Faccio una cosa che non credevo sarei stata in grado di fare: tradisco il mio ragazzo. Quanti sensi di colpa. Io che sono sempre cresciuta secondo una morale cattolica, mi ritrovo a fare cose assurde. Mi vergogno tantissimo. Ho due vite: una apparentemente normale, l’altra peccaminosa e contraria ad ogni morale. Non riesco a guardare negli occhi i miei genitori, continuo a frequentare la chiesa e i sensi di colpa aumentano. Prendo in giro tutti. Non posso lasciare il mio ragazzo, lui mi ama, anche se mi chiude in casa, se mi offende, se mi dice che mi ha pagata troppo perché sono una puttana. Io l’ho tradito…non ho avuto il coraggio di lasciarlo né di dirgli la verità e poi per chi? Nessuna relazione seria, sono andata a letto anche con persone che non conoscevo…forse sono diventata quella che lui mi diceva di essere. In più dovevo andare a letto con lui, anche quando non volevo, perché dovevo dimostrare che l’amavo. Io molte volte non volevo, ma dovevo…mi facevo sempre più schifo! Mi faccio schifo, sono una spazzatura. L’unica cosa che posso fare è andare via da casa. Mi trasferisco a Torino, io volevo andare in un’altra città ma il mio ragazzo mi obbliga a stare con lui, a convivere. So che i miei, da buoni cattolici, non sono favorevoli alla convivenza. Ma sono in grado di decidere da sola? Sono adulta, non sono più una bambina. Non voglio vivere con lui, non voglio stare con i miei. Cosa voglio fare?…non lo so! Come è possibile? Decido di vivere con lui. Un anno e mezzo di prigionia e di bugie, anche di tradimenti. A Torino sono sola, posso abbuffarmi con più facilità e poi lì scopro i lassativi. Novanta al giorno sono sufficienti. Il dolore provato lo meritavo tutto…così mi sentivo svuotata completamente. Vomito, lassativi, attività fisica, digiuni, abbuffate, pillole dimagranti, diuretici, cibo mangiato dalla spazzatura: la mia giusta punizione! Dovevo stare male. Da questo momento in poi il buio mi avvolge, tutto va in rovina. Mi convinco sempre di più che la mia vita ormai è finita: sono stata condannata a stare seduta su di una poltrona di ferro e vedere la mia vita. Sono un vegetale che aspetta di morire…ho tanta voglia di vivere che desidero morire per non vedere la mia vita vissuta senza un’anima. Ma non ho nemmeno il coraggio di farla finita. E allora vivo l’inferno! Non posso più innamorarmi, non lo merito, non sono degna di stare con i miei, la vergogna, i sensi di colpa sono insopportabili…e poi è anche colpa loro. Si, sono incazzata con loro, non mi capiscono…non riescono ad accettare un diverso modo di pensare. Per loro la felicità non esiste, c’è solo il sacrificio, il non godere. Anche la tavola diventa un dovere, una cosa fatta in fretta, dove l’indifferenza è il piatto forte. Voglio scappare, ma non ho un lavoro e non so dove andare. Nessun luogo mi mette al sicuro da me stessa. Sono vittima e carnefice; mi consumo in un sadomasochismo che mira ad annichilirmi. Non riesco a diventare Nessuno. Voglio scomparire, ma sono condannata…più mi consumo più devo mangiarmi per potermi consumare, ma non finisco mai! Poi… Poi dentro di me uno spiraglio di normalità riaffiora e, come in un sogno, mi fa assaporare il dolce sapore della me che non è morta, ma solo imprigionata. Ho un bavaglio, per questo non riesco a sentirmi; mi faccio pena e nello stesso tempo mi torturo. Come in tutte le fiabe che si rispettino incontro il mio principe azzurro, ma non può liberare la principessa rinchiusa nella torre! Solo io lo posso fare. Mi vergogno a stare con lui, come faccio a regalargli una me che è un mostro. Un brivido caldo, una voce forse flebile eppur percepibile dice che il mio cuore batte ancora e che ce la posso fare, posso guarire. Una telefonata … apro gli occhi: quello che ancora avevo ignorato è che sono malata. Non posso farcela da sola, ho bisogno di cure, di persone esperte e competenti. Fortunatamente qui a Lecce è attivo un centro di cura per i disturbi dell’alimentazione. Ora so che - dopo una breve fase anoressica - sono affetta di bulimia nervosa. Il percorso è molto faticoso, la malattia ha compromesso la mia volontà, mi sta divorando. La bacchetta magica… La cosa bella è che esiste una cura… sembra strano, un sogno! A volte la realtà riserva sorprese così banali, per questo non cercate, ma essenziali…gocce di vita. Dopo alcuni mesi di attesa, si aprono le porte del centro: fate in vesti di streghe, torri con altre principesse imprigionate come me…ho paura ma non sono sola! Ogni cosa che tocco si trasforma in cibo che minaccioso è lì, per esser ingerito e trasformarsi in cumuli di grasso, che copriranno questo donna morta in marcia. Poi le fate si spogliano dei loro abiti grotteschi e il cibo da anima al mio corpo inerme. Sa di buono! ogni alimento ha un gusto nuovo…ho fame. Sì! le persone sane hanno fame e non devono sentirsi in colpa per questo. Avere fame non è sinonimo di “ciccione”…è normale! Molti traumi, molte separazioni violente hanno segnato la mia vita. Non le voglio raccontare. Ho paura che possano ancora farmi male. Non avverrà il miracolo, il passato non lo dimenticherò, i suoi segni resteranno indelebili nella mia anima, ma avrò nuovamente un’anima…che bello! Le persone accanto a me non cambieranno, gioie e dolori si alterneranno, non vivrò felice e contenta… Vivrò... Vivrò e godrò ogni attimo del presente, vivrò e non abbandonerò più la mia vita!

non c'e gioia più grande nel ricordare un dolore oramai passato

questa vita che con i suoi ritmi ci ha portato via tutto o forse niente,
questa gente che con i suoi sorrisi e schemi
ci ha tolto tutto o forse niente,
questo mondo perfetto che ci fa sentire tutto e niente,
questa mente....cosi segnata,
ci fa vedere tutto ma "quasi sempre niente".

e non troviamo via d'uscita, allora ci adagiamo nel dolore e nella commiserazione,
perchè in fondo iniziamo ad amare quegli sguardi di pietà e compassione... ma chiedetevi se è questa la via che volete passare: dietro le quinte, sempre in punta di piedi, pronte a chiudervi in voi stesse e rimproverarvi ogni gesto d'amore e di vita.

anche io sono stato uno di voi... e so bene quanto l'esperienza della malattia e ancor peggio della cura, possa essere terribile,ma in fondo "non c'e gioia più grande nel ricordare un dolore oramai passato".

non impegnatevi a cambiare il mondo la fuori, perchè come ogni sistema, farà di tutto per conservare il suo equilibrio perfetto, e voi vi sentirete sempre tagliati fuori con la vostra imperfezione...ma scoprirete col tempo il piacere nel non sentirvi partecipi, ve lo garantisco!
piuttosto, trovate in questo duro cammino " la via per uscire dal buio" e costruite in voi,non quel muro che vi separerà sempre dal mondo, ma quel "nuovo io" che e' pronto a gridare al mondo che c'è, che esiste... e che vuole vivere realmente e intensamente quanto c'é la fuori bello o brutto che sia, purché sia vero, autentico.

credere in noi, e' questo il primo-difficile passo che siamo chiamati a fare...
"e in fondo ad amare noi stessi siamo sempre stati abituati"...perché smettere, perché proprio ora! :-d

pdl87

17 ottobre 2007 16.25

mercoledì 17 ottobre 2007

Tina Modotti ritratta da Edward Weston






















Bibliografia

Elena Poniatowska, Tinissima, Frassinelli, Milano 1996

Letizia Argentieri, Tina Modotti, tra arte e rivoluzione, Franco Angeli, Milano 2005

Pino Cacucci, Tina, Feltrinelli, Milano 2005

Nolita? No anorexia?

Meglio dialogo, comprensione, ascolto!
di L. A.

Oliviero Toscani espone le sue modelle sofferenti, sulle mura del Castello Carlo V°, non presente alla innaugurazione della mostra domenica “Intramoenia extrart. Il gran tour della meraviglia” (!?) si fa sentire come una telefonata! C’è chi può!
Noi riceviamo dall’interno del Centro per la Cura e la Ricerca sui Distrubi del Comportamento Alementare, un intervento sulla campagna Nolita/No aronexia.
Il Centro della Asl di Lecce ha attivato in rete un blog: http:lemanisorelle.blogspot.com aperto a contributi e commenti.


Un tempo l’uomo era impegnato nella lotta per l’affermazione di sé, per divenire cioè principio costituente della realtà contro la visione teologica dominante. Oggi tale supremazia è in mano al reale e all’uomo non resta che la condizione di sudditanza.
Dietro questa oggetivazione degli individui non c’è alcun complotto. Non esiste un Grande Fratello orwelliano. Sono i nostri discorsi ad instillarsi radicalmente nel tessuto sociale, creando uno spartiacque fra ciò che si può dire e non dire, fra ciò che si può fare e non fare. Ma sulla scacchiera delle cosiddette “procedure discorsive” domina il re: è il potere. Potere che scava come una “talpa cieca”, invisibile, insondabile, ma onnipresente.
Sapere e potere , dunque, foucaultianamente intesi, costituiscono un “dispositivo” capace di determinare il nostro modo di intendere e interpretare il mondo reale.
Nella contemporaneità il dispositivo sociale prevalente è il marketing: la “nuova” scienza economica che struttura il reale secondo proprie prerogative. Agisce in base ad una sola logica, quella del profitto. Il suo obiettivo? Arrivare a determinare bisogni sempre nuovi e crescenti dal momento che c’è una scadenza da rispettare: il fatturato. Come entra nella nostra vita? Certamente non in punta di piedi. Non bussa alla porta del nostro magazzino di sapere. Piomba in modo dirompente imponendoci i suoi significati. Significati che vanno a stratificarsi attraverso gli oggetti di consumo, i quali diventano i “discorsi” del marketing. Siamo liberi di acquistare o meno questo o quel marchio, ciò nonostante il marketing avrà ugualmente raggiunto la propria finalità: entrare nella nostra mente, modificando il nostro stile di vita.
É quanto si è verificato con l’ennesima campagna pubblicitaria di Oliviero Toscani per conto di Nolita, fashion brand del gruppo padovano Flash&Partners. Un’ex modella francese- appena 31 Kg- espone il suo corpo nudo, emaciato, consumato dall’anoressia. Si parla di campagna shock. Lo è. Si parla di provocazione. Lo è. Si pala di strumento di sensibilizzazione ai mali sociali. Forse lo è un pò meno.
In fin dei conti, insabbiato quel polverone di disapprovazione, acclamazione, scandalo o consenso, a Toscani non resta che l’ennesima “corona d’alloro” di cui furono cinti pochi geni e d’altri tempi. La differenza? La sua collezione non è arrivata post- mortem!
A guadagnarci veramente non è quella giovane scheletrica aggrappata ai manifesti delle più note città italiane, ma Nolita, che ergendosi a “specialista” delle malattie psichiatriche, ha esogitato un “rimedio” per i problemi legati al cibo: “perché non mettere questo universo giovanile, così ribelle, complicato, insensato, di fronte alla nuda e cruda verità? Mostriamo come si riduce un corpo vessato nella carne, nell’intimità, nello spirito! Tutti, però, devono sapere che a porre in guardia sono io, Nolita!”. Nulla in contrario. Tuttavia vien da chiedersi se quel manifesto“No Anorexia” sia davvero un monito per le schiere di fanciulle disposte a qualsiasi sacrificio in nome della bellezza, della perfezione, del successo “facile”; mentre continuano a “sopravvivere”, all’ombra dei cipressi, le associazioni, le strutture ospedaliere che lottano ogni giorno con una burocrazia lenta e spesso sorda alle insistenti richieste di risorse e personale specializzato. Sì, perché c’è da sottolineare che si possono contare sulle dita delle mani le organizzazioni di tipo pubblico impegnate nella ricerca e nella cura delle patologie legate all’alimentazione. Continuano a lavorare dietro le quinte nonostante il palcoscenico resti un’esclusiva della spettacolarizzazione, dei colpi di scena.
Coniugare il prodotto, il marketing e i problemi sociali è veramente la sola freccia in grado di centrare il bersaglio, in grado di “costringere” la società civile a superare il mito della magrezza?
Dialogo, comprensione, ascolto sono le prime armi contro la quotidiana indifferenza, piccole rose nel deserto contro l’inaridimento dell’animo.

lunedì 15 ottobre 2007

Un appello di Voce di Donna

Care Amiche, cari Amici,
sono Carla Grementieri, presidente di voceDonna, associazione di Castrocaro Terme e Terra del Sole (Forlì-Cesena), membro del Tavolo Permanente delle Associazioni contro la Violenza delle Donne di Forlì.
Vorrei portarvi a conoscenza di un fatto molto eclatante che sta avvenendo in questi giorni nella nostra bella Romagna e che lede la dignità delle donne.
Cerco di essere chiara e sintetica nel riassumere la spinosa faccenda.
Come saprete, Domenica 21 ottobre, nelle tre province romagnole (RA-RM-FC) si svolgerà l’Open Day delle biblioteche e dei musei a cui tra l’altrovoce Donna ha aderito con un “intrattenimento” nella biblioteca di Castrocaro e fin qui tutto regolare. Le tre province, come già è avvenuto per gli scorsi anni, pubblicano un corposo depliant unico che illustra le aperture domenicali, con relativi eventi culturali, di tutte le biblioteche che hanno aderito all’iniziativa. Ogni provincia sceglie anche un testimonial che appare sul depliant con uno slogan. Rimini ha scelto Martina Colombari, Forlì-Cesena il motociclista Melandri e Ravenna il comico Cevoli.
Di quest’ ultimo la provincia di Ravenna ha deciso di pubblicare questa frase per invitare alla lettura: “Un buon libro è la compagnia più intelligente che un uomo possa trovare. Ogni tanto però ci vuole anche un po’ di solitudine con qualche passerina ignorante.”
L’artefice di tale pensata è l’Assessore provinciale alla Cultura di Ravenna Massimo Ricci Maccarini.
La stampa riferisce che i due colleghi Assessori di Forlì-Cesena (Iglis Bellavista) e di Rimini (Marcella Bondoni) si sono dissociati nettamente dal collega di Ravenna e hanno chiesto il ritiro dei depliant. La Bodoni ha affermato,tra l’altro, riferendosi a Ricci Maccarini: “Ha inserito quella frase volgare nella comunicazione istituzionale senza informarci. Linguaggio indecoroso, indegno di una istituzione. Ho chiesto di ritirare quei depliant dalle nostre biblioteche e musei. Non è così che si avvicinano i giovani alla cultura. Rimini non pagherà a Ravenna , che la coordina come Polo romagnolo, la quota della promozione culturale.”
I giornali riportano che Massimo Ricci Maccarini, uomo che rappresenta la Cultura in tutta la provincia di Ravenna, abbia replicato: “Che c’è di male?”
Ho svolto una piccola indagine nella biblioteca di Castrocaro. La bibliotecaria mi ha spiegato che all’ inizio della settimana scorsa ha ricevuto una telefonata dalla provincia di Forlì-Cesena in cui si chiedeva di non distribuire i depliant al pubblico.
Care amiche, vi invito a verificare se questi depliant vengono distribuiti a Forlì-Cesena e a Rimini mentre certamente saranno distribuiti a Ravenna…
Care amiche, cari amici non possiamo più tacere su fatti del genere, fatti che vedono le donne, tutti i giorni vittime della violenza degli uomini, in questo caso vittime di un Assessore che dovrebbe rappresentare alla stessa maniera uomini e donne.
voceDonna ha inviato la lettera di protesta ai Presidenti e a tutti gli Assessori delle Province di Ravenna, Rimini, Forlì-Cesena e ai quotidiani locali.
voceDonna ha pubblicato questa mail nel proprio sito, assieme alla lettera di protesta inviata . www.vocedonna.it (iniziative)
voceDonna ha inviato questa mail a circa mille indirizzi distribuiti in tutt’ Italia e anche all’estero.
voceDonna invita a diffondere questa mail tra amici , conoscenti e ai giornali.
voceDonna invita tutte le associazioni e le singole persone (donne e uomini) ad inviare una mail di protesta (segue indirezzi e testo)e/ o a telefonare e mandare fax alla Provincia di Ravenna (seguono numeri).

Grazie per la vs. attenzione e un caro saluto a tutte/i voi da voceDonna

(nei commenti potete trovare gli indirizzi e il testo dell'appello da inviare!)

sabato 13 ottobre 2007

Foglia appena nata, è il mio cuore!

da Costatino Kavafis di Manila


Un occhio di stelle
ci spia da quello stagno.

E m'oscuro nel mio nido.

Chiudiamo gli occhi
per vedere nuotare in un lago
infinite promesse.

Ci rinveniamo a mancare la terra
con questo corpo
che ora troppo ci pesa.

Ma ben sola e ben nuda
senza miraggio
porto la mia anima.

Mondo.
Fratelli.

Foglia appena nata
è il mio cuore, il paese più straziato.

Probabilmente non sei più chi sei stata

da Rabindranath Tagore di Alessandra

In questa notte in cui tutto trabocca ignoro.
Un moto senza posa ci sospinge.
Il corso del tempo non è che un passo minimo nel cerchio del perenne
solo ciò che persiste ci inizia all'essere.

Senti come lo spazio cresce ad ogni tuo respiro,
di te che non sei più forma ma essenza.

Ciò che ti consuma diverrà forza grazie a questo cibo.
Tu entra ed esci dalla metamorfosi in questa notte in cui tutto trabocca,
sii magica virtù all'incrocio dei tuoi sensi
dei loro strani incontri sii tu il senso.

Probabilmente non sei più chi sei stata.
Ed è giusto che sia così.

Non apparirai più per dare un senso al nulla e non ti chiederai,
imprigionata tra le bende e i gessi se fu inganno, fu scelta, fu comunicazione.

Tu sola sapevi che il moto non è diverso dalla stasi, che il vuoto è il pieno,
e il sereno è la più diffusa delle nubi.

Quello che mi diceva mia madre, non può certo essere vero!

da Pablo Neruda / di Nadia

Quello che mi diceva mia madre
non può certo essere vero.

Diceva: una volta macchiata tu non diventi più pura.

Per la tela non lo puoi dire,
neppure per me tu puoi dirlo.
Poiché quando il primo mi strinse tra le braccia,
e io strinsi lui sentì dal grembo e dal petto sfuggire i cattivi impulsi.
Così va per la tela.
Ma quando vennero altri tipi cominciò un' annata trista
Mi davano nomi cattivi e divenni una cosa cattiva.

Con il risparmio e con il digiuno non c'è donna che si ristabilisca.
Se nel cassone la tela giace a lungo
Nel cassone poi diventa grigia.

E di nuovo venne un altro,
in un'altra annata.
Vidi, quando tutto fu diverso,
che anche io ero cambiata.
Immergila nel fiume e agitala.
C'è sole.
Come prima diventa nuova.

Lo so: tante cose possono capitare
Finchè non ti capita più nulla.
Solo la tela mai indossata
È stata una cosa sprecata.
Se si è fatta tutta lacera
Più nessun fiume la rende pura.
La sciacqua, la riduce a stracci.

Nel sole rosso sulle pietre amo le chitarre
Sono interiora di bestie, la chitarra canta bestialmente,
divora piccole canzoni.
L'essere che io porto capita in un mondo perverso
quando gli errori sono esauriti siete come ultimo compagno
di fronte a noi il nulla
per quante volte tu guardi il fiume non vedi mai la stessa acqua.

Non guardar fissa l'onda che si frange al tuo piede
fino a quando sari immerso nell'acqua verranno
io che nulla più amo dello scontento per le cose mutabili.
Così nulla odio più nel profondo scontento
per le cose che non posso cambiare.

giovedì 11 ottobre 2007

Di luce, di amore e di vero...

Caro mauro,
rimaneggiando come da te suggerito la parole "afferrate" e scritte d'impulso
durante la lettura delle poesie della Aquaro mi è venuta fuori questa.
Avevo pensato di metterla tipo commento alla pagina di oggi del blog,
che apre proprio con quelle poesie.
Poi ho pensato che potrebbe essere un'idea
quella di aprire una specie di "spazio" dedicato proprio a questo lavoro:
pubblicare il testo originale della poesia e poi,
magari di seguito,
gli scritti frutto di questo rimaneggiamento dei frammenti afferrati al volo,
magari spiegando la cosa.. che dici? pensiamoci...
un abbraccio,
a presto
E.na


Di urlo agghiacciante
è l'urgenza
di un occhio spietato.
Libera, libera, libera
gli occhi
da ciglia incollate
di sangue!
Libera, libera, libera
le mie notti
da lune grondanti
di rosso!
Di verde
le voglio vestire.
Di luce, di amore e di vero,
che pieghi
che curvi
che spezzi
le sbarre di ogni menzogna.

E se non avessi memoria? / Se questo miscuglio di croci e voci...


Ieri il laboratorio di scrittura è stato dedicato alla lettura
delle poesie di Comasia Aquaro,
poetessa di Martina Franca.
Vi proponiamo alcuni suoi versi.
dal suo I fiori nei cantieri, 2007 Campanotto





... e non avevo che questa

umana bilancia
del sentire
che della mia imperfezione
facevo metro d'umanità
e amavo più forte che potevo

H
o i pugni al sole
e nel volto una folla
si scuce il viso
e si ricuce il cuore
poca luce respiro
e sono folle.
Mi sboccia un ombra sulle labbra
ed ogni sillaba è pietra d'ambra
che sfilo dagli occhi
abracadabra
che mi serra le palpebre
e m'incolla le ciglia
di terra e di pianto
di miseria collettiva
che grido e grido
fino a farmi sangue
senz' ossa e carne
e scorro tra lune rosse
fino a farmi immune
da questa vita di carne.

***

Non mi adeguerò mai a nulla
sono d'altri pianeti i poeti
se toccano terra
è solo per l'erba
per quant'è bella verde
aspra di luce.
Ho nel cuore
quel che non si può dire.
Vietato essere
in quest'universo
veri.
Allora siano chiuse le mie porte
ed entri solo Poesia
che sola passa
come lana di nuvole
dalle sbarre.
E filo... filo...
come questo fuso d'inchiostro.

***

Questa corsa da me
mi sfianca
mi stanca restando
e non so più davvero
se sono me
o altri
e mi sveglio spossata
spaesata di me.

***

L'animo sgombro
è una casa piena d' echi
anche se aperta
nessuno può rubarti nulla
nessuno può prendere il tuo nulla

o acchiappare un ombra coi tacchi.

Solo il vento può dire
e l'animo rispondere.

mercoledì 10 ottobre 2007

martedì 9 ottobre 2007

In cammino!

Io appartengo all'essere e non lo so dire!

Io sono spaccata, io sono nel passato prossimo,

io sono sempre cinque minuti fa,

il mio dire è fallimentare,

io non sono mai tutta, mai tutta, io appartengo

all’essere e non lo so dire, non lo so dire,

io appartengo e non lo so dire, non lo so dire,

io appartengo all’essere, all’essere e non lo so dire


io sono senza aggettivi, io sono senza predicati,

io indebolisco la sintassi, io consumo le parole,

io non ho parole pregnanti, io non ho parole cangianti,

io non ho parole mutevoli,

io non disarticolo, non ho parole perturbanti,

io non ho abbastanza parole, le parole mi si

consumano, io non ho parole che svelino, io non ho

parole che puliscano, io non ho parole che riposino,

in non ho mai parole abbastanza, mai abbastanza

parole, mai abbastanza parole


ho solo parole correnti, ho solo parole di serie,

ho solo parole del mercato, ho solo parole

fallimentari, ho solo parole deludenti,

ho solo parole che mi deludono,

le mie parole mi deludono, sempre mi deludono,

sempre sempre mi deludono, sempre mi mancano


io non sono mai tutta, mai tutta, io appartengo

all’essere e non lo so dire, non lo so dire, io

appartengo e non lo so dire, non lo so dire,

io appartengo all’essere, all’essere e non lo so dire.


da: Mariangela Gualtieri – Fuoco Centrale - I Quaderni del Battello Ebbro

lunedì 8 ottobre 2007

Che ne pensano i creativi della pubblicità?

http://sdz.aiap.it/notizie/9556

Visitate il sito Social Design Zine dell'AIAP
design e cultura quotidiana!

Ah! Così mi sento!!!

La necessaria crudezza!

Campagna nolita, si o no?

l’opinione di M.la

Ieri la dottoressa Renna mi ha chiesto che impressione mi facesse il manifesto della ragazza anoressica della pubblicità di Oliviero Toscani. Ero arrivata a discussione già iniziata, così all’improvviso ho espresso d’impulso le mie impressioni: “Ben venga la crudezza dell’immagine! E’ vero stringe il cuore, fa paura, fa pensare, ma è proprio ciò di cui ha bisogno un problema che sino adesso è stato affrontato solo in occasione di sfilate di moda (modelle anoressiche si o no?)”.
Esempio fatale per le ragazze: stilisti, moda, taglie… ‘media’ troppo condizionanti per la fragile psiche di adolescenti per le quali è vitale l’accettazione del gruppo, piacere al boy del cuore, rispecchiare il modello di ragazza alla moda e se questa impone la tg. 40/42, vita bassa, ventre piatto, tette appena accennate… così sia!

Ben venga se a turbarsi, guardando quell’immagine che suggeriva privazione, debolezza, morte annunciata possono essere madri e padri sino ad ora inconsapevoli che sì, anche la loro principessa può discendere quel baratro fatto di bilancia, specchio, dieta, attività fisica ossessiva; che sì, anche la loro bambina che sta crescendo e che con loro parla sempre meno, o proprio per niente, o forse in famiglia non si è mai parlato se non di quotidianità e banalità, sì insomma, la loro bimba può nascondere problemi complessi, dubbi irrisolti su sé stessa, dispiaceri mai affrontati per pudore, per paura, o perché le si è fatto capire che “certe cose” sono tabù.

Sicuramente quella di Toscani è un immagine shockante.

Viviamo in un epoca in cui la comune percezione di salute, benessere, valori primari, affetti, relazioni è completamente distorta, in balia della tecnologia per comunicare, per giocare, per vivere. Ci appropriamo della vita altrui attraverso i reality, le fiction e quant’altro distraendo l’ attenzione dalla nostra “normalità”, dai nostri problemi. Dai nostri “silenzi”, quelli interiori che rimbombano indesiderati quando siamo soli e quelli familiari fatti di indifferenza, di superficialità, di gesti di compensazione, di ruoli confusi.

L'anoressia, questo “virus” silente.

Campagna nolita, si o no?

L’opinione di P.ra

Non so quanto sia giusto , etico, morale, mostrare il corpo di una sofferente.
Di sicuro guadagnare sulla pelle di colei che è ‘testimone’ di una malattia che divora e uccide non credo sia corretto.
Non sono una competente di disturbi alimentari per capire le conseguenze su chi è ignaro di aver contratto questo “viris” silente.
Sono solo una persona che si è accorta, forse troppo tardi, forse ancora in tempo, di essere malata… Oggi mi sto curando.
Che effetto ha su di me?
Vedere una ragazza che mostra un corpo emaciato mi fa ricordare quando anch’io provavo piacere a vedere un corpo così e non riuscendo ad ottenerlo ho iniziato a vomitare.
Ho paura, paura, paura!
Voglio guardare quell’immagine, parlare di quest’argomento al passato.
Sarò egoista? Forse…
In questo momento non mi interessa aiutare chi soffre, perché sto soffrendo tanto.
Non so come mi sono annullata e non ho sofferto tanto quanto ora in passato,
ora che ho aperto gli occhi e che ho visto quanto è irta la strada che porta alla salvezza.
Ma una cosa è certa: esiste e per quanto difficile io l’ho intrapresa alla luce di Dio e grazie a lui riuscirò a rinascere.

[Il disegno è di M.ta, tratto da Nude alla guerra, Conte editore, Lecce 1999]

Toccare le corde giuste!

Campagna nolita, si o no?

l'opinione di S.ia

Provo dispiacere, sofferenza nel vedere la foto della modella anoressica sul manifesto.

E’ un impatto forte per me, avverto come un senso di nausea che mi attanaglia lo stomaco.

Quel corpo scheletrico mi fa pensare alla morte.

L’altro giorno per sdrammatizzare ho fatto dell’ironia abbastanza cattiva e cinica.

Io non ho un linguaggio molto ricco, anzi, credo che sia molto elementare, ma con questo vorrei dire ugualmente che fosse stata una persona “qualunque” ad avere la richiesta di posare per un servizio fotografico del genere, secondo me non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo senza veli (almeno per quanto mi riguarda). Quella ragazza essendo una modella non ha avuto nessun problema a posare nuda nonostante avesse la consapevolezza di avere un corpo ripugnante e sinceramente chissà quanto ha guadagnato per questo.

Come dice un articolo “… i segni della malattia sono ovunque”, a me viene spontanea la domanda:

“ma cosa centra la malattia con un marchio d’abbigliamento?”, altro che campagna di sensibilizzazione contro l’anoressia!

Un bambino che guarda il manifesto e chiede alla madre chi sia quella ragazza, quale risposta dovrebbe dare?

Una ragazza che aspira ad avere successo nel campo della moda, sarebbe disposta anche a ridursi così a costo di arrivare alla notorietà?!

Per me tutto questo è assolutamente negativo, come tanta altre cose che ci circondano.

Da ignorante in materia penso che, mentre prima forse c’era poca informazione riguardo al problema adesso sicuramente c’è più comunicazione ma non credo che il manifesto di no-lita tocchi le corde giuste. Anzi! Il problema viene sfruttato nel modo errato, strumentalizzando la malattia a scopo pubblicitario. E’ molto squallido.

Il nostro No all'anoressia!

La prima volta che lo guardiamo!


Bravo Mauro!

sabato 6 ottobre 2007

Oh!


“mi ripeto sempre di voler vivere!”

alessia

L'industria della dieta e i messaggi pubblicitari.

Anche l’orecchio vuole la sua parte
di S.S.


Analizzare il tema dei disturbi del comportamento alimentare dal punto di vista divulgativo ed informativo significa capire il modo in cui, sotto varie forme, si comunica in proposito nel dibattito pubblico attuale. Sarebbe riduttivo ed errato considerare alcune modalità di comunicazione inerenti in particolare cibo, corpo e diete, quali possibili cause primarie del manifestarsi di patologie come l’anoressia e la bulimia nervosa. Tuttavia non possiamo esimerci dal riflettere sull’impatto psicologico di alcune campagne pubblicitarie e sull’influenza esercitata dai mass media in genere: si inneggia ad ideali di magrezza e a canoni estetici volutamente eccessivi come richiesto dalle moderne esigenze di marketing. Ad essere chiamate in causa è la cosiddetta “industria della dieta” che utilizza strategie commerciali attentamente elaborate per suscitare l’interesse e spingere all’azione i destinatari della comunicazione, i quali finiscono per accettare ed adeguarsi a determinati modelli comportamentali. Spesso i messaggi pubblicitari sono particolarmente subdoli e per raggiungere il loro scopo persuasivo vanno a colpire la parte più emotiva e sensibile degli individui, facendo intendere che la perdita di peso e la magrezza siano i soli mezzi per ottenere il successo e la realizzazione personale, oppure enfatizzando il fallimento della dieta come segno di scarsa forza di volontà o mancanza di rigore morale. Significativa e per molti aspetti temibile è dunque l’influenza che le campagne pubblicitarie e i modelli veicolati dai media hanno sulla nostra realtà sociale, al punto da produrre negli individui “difetti di percezione” dell’immagine di sé considerata inadeguata rispetto ai canoni proposti e che vanno così a riversarsi nel rapporto con il cibo e l’alimentazione. Chi ci guadagna da questo pericoloso meccanismo comunicativo è solo il consumismo, il moderno orco cattivo che, promettendo castelli di sabbia, miete indisturbato le sue vittime: anoressia e bulimia mostrano da diverse angolature la distorsione della nostra quotidianeità, l’inganno e l’inconsistenza alimentati dal discorso “mediatico” contemporaneo. Riconoscendo quindi che un’attività comunicativa impropria può essere considerata una concausa dei disturbi del comportamento alimentare, occorre iniziare a sfruttare le potenzialità informative e persuasive dei mass media in maniera positiva e benefica, sensibilizzando sulla profonda influenza che essi esercitano sugli individui nella ricerca della propria identità e nel rapporto con il proprio corpo.

Sull'adolescenza


“Non c’è bisogno che abbia a sottolineare la decisiva importanza dell’adolescenza nella vita, certo, ma anche nell’area conoscitiva della psichiatria. Nell’adolescenza hanno radici emblematiche le esperienze psicotiche (quelle schizofreniche e anche, almeno in parte quelle depressive) e le esperienze neurotiche: come quelle ossessive, quelle ansiose e quelle legate ai disturbi della coscienza dell’io e della coscienza del corpo. Nell’adolescenza cambiano le emozioni (le passioni), cambia l’esperienza del tempo, cambia il modo di confrontarsi con i problemi della vita, e cambia radicalmente il modo di rivivere il proprio corpo: che si tende talora a rifiutare nei suoi significati e nella sua trascendenza”

Eugenio Borgna (psichiatra e scrittore)

giovedì 4 ottobre 2007

Io o te, brutta malattia?

L’Inizio
di Chiara

Ero lì seduta vicino al finestrino,
con gli occhi impauriti che spiavano il paesaggio sottostante,
colorato di verde marrone e giallo,
circondato da montagne spruzzate dai fiocchi di neve gelidi e soffici,
bianchi e pallidi come il mio viso stanco, serio e disperato...

Durante il pranzo in aereo qualcosa sostituì la mia vera personalità:
il cuore cominciò a battere,
le mani a tremare,
la bocca voleva urlare,
gli occhi volevano piangere.

Quel qualcosa non saprei come definirlo:
un fantasma che compare e scompare?
Un demone che mi fa impazzire a più non posso?
No semplicemente Anoressia.

E’ dal 26 giugno 2002 che lotto con questa malattia...

brutta ladra dei miei sogni,
che mi costringi,
mi condanni
mi vuoi uccidere con la tua cattiveria.

Mi guardi da lontano incrociando gli occhi,
mi prendi per mano
mi porti con te nel tuo mondo ottuso, impedendomi di guarire.

Questa deve essere una tua decisione,
la malattia ti ha chiuso in un labirinto
ti tiene nelle sue mani,
mani forti e robuste,
ti guarda con i suoi occhi,
occhi piccoli e maligni,
ti sorride falsamente con la bocca,
bocca sporca e severa,
ti imprigiona in una bottiglia di vetro infrangibile,
ti isola e ti costruisce un mondo fatto di paure e angosce.

Rinunciando ai miei sogni, alla mia età, alla mia spensieratezza,
ora sono curata in un centro.

Devo essere forte, avere il pugno di ferro per salire questa lunga e faticosa scala,
per scavalcare questo muro,
per correre scalza su questo campo di rose spinose...

Chi vincerà?
io o te, brutta malattia?

Aver cura!

Il Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare, DSM-Asl di Lecce, dalla sua fondazione ha elaborato momenti di sensibilizzazione e di approfondimento teorico, che si sono rivelati capaci di definire un’immagine di apertura e di disponibilità che ha permesso a molte giovani donne di avvicinarsi al Centro, senza la preoccupazione o l’angoscia di svelare il proprio sintomo, senza la sensazione di cadere nell’abisso sconosciuto che la cura spesso rappresenta. L’esperienza di questi anni di lavoro ci ha permesso di muovere, sperimentare e verificare la ricerca e la messa a punto di percorsi terapeutici aprendoci all’esterno con la costruzione di eventi mirati, capaci di approcci interdisciplinari, nell’intento di determinare una forte relazione tra istanze medico-sanitarie, ricerca, approfondimento scientifico, possibilità espressive e necessità di comunicazione. sensibilizzazione e aggregazione. L’arte, il lavoro creativo, il contatto nel territorio con esperienze significative di azione culturale, l’approfondimento scientifico sono state le leve con cui il nostro centro ha costruito la relazione con l’esterno, aggregando e dando corpo alla sua realtà operativa e terapeutica. È una ricerca che riflettendo sulla realtà socio-culturale, sui suoi limiti partecipativi e valoriali, cerca dire emozioni, affetti, necessità, prova ad esprimere - dentro tensioni che scelgono la poesia, il collage grafico, la fotografia, il video, il teatro, la danza - le difficoltà e le involuzioni che hanno dato vita al sintomo e al manifestarsi della malattia.

È possibile elaborare un modo diverso per incontrare ed affrontare il disagio e quegli ambiti di crisi comportamentale e sociale che manifestandosi muovono una forte critica ai sistemi culturali e di relazione?

È possibile un’altra comunicazione?

Lo stigma del disagio fà del corpo un ambito fortemente simbolico, uno strumento di costruzione e di elaborazione di sintomi che si fanno metafora e messaggio. L’ immagine del corpo sublima un sentire, una differenza, una mancanza, definendo un ambito eroico dell’ esistere, che ha bisogno di essere compreso, accudito, valorizzato e soprattutto attivato, per poter mutare segno, facendosi pienezza di lingua, motore capace di affermare la qualità differente del proprio sé. Se il sintomo che si manifesta comunica qualcosa della persona che ne è portatrice, occorre parlare la sua lingua.

Come rispondere a quello smarrimento, a quel sentimento di inadeguatezza così fortemente critico nei riguardi dell’ ordinario della vita, che non corrisponde aspettative, che profondamente delude la sensibilità di chi sente di doversi sottrarre, senza immaginare di reagire, inoltre alla fragilità del proprio sé, punito, mortificato, svuotato di vita?

Una sofferenza che coinvolge tutti i livelli di una persona, che altera profondamente i rapporti affettivi e relazionali, non può essere affrontata e risolta da terapeuti che si occupano esclusivamente del sintomo ignorando tutto il resto. é necessario un contatto fortemente creativo, al di là di procedure standardizzate: ogni persona ha una dignità ed una propria cultura che valgono in quanto tali, al di là dell’aspetto corporeo è necessario cercare di definire possibilità di espressione, di oggettivazione della propria differenza sentimentale ed emozionale, per riportarla ad una normalità, ad una quiete, ad una pienezza comunicativa.
La malattia si deve fare esperienza, cammino di consapevolezza. che chbiarifica e riconosce le necessità, nell’elaborazione del dolore. E’ utile una manovra larga, una manovra di umiltà da parte di chi ha inteso fino ad ora la possibilità di una specializzazione della ricerca in un senso unico ed esclusivo, tralasciando o dimenticando la possibilità di un percorso di integrazione tra competenze, capace di affiancare conoscenze e pratiche, mobilitate a porsi il problema del disagio nel suo intero problematico, fuori da una logica dell’intervento nell’emergenza per un progetto di umanesimo concreto, che riflette sulla qualità del vivere per tracciare un quadro di risoluzione concreto, realistico e soprattutto coraggioso.

L’apertura all’esterno, la pratica di sensibilizzazione, la necessità di stimolare un’adesione volontaria di chi si sente coinvolto nella necessità della cura, sono motivi di affinamento di pratiche comunicative ed aggregative, capaci di definire una strategia che, riflettendo sulla qualità della vita, definisce approcci di approfondimento e di critica propositiva e la messa in opera di politiche volte alla prevenzione. I territori di pratica dunque cambiano, smettono la loro veste burocratico - istituzionale, per aprirsi all’incontro.

C’è una forte particolarità dei soggetti coinvolti nell’ esperienza anoressico - bulimica che è bene delineare, per meglio comprendere quanto la proposta creativa, in questo tipo di malattia, può essere utile alleato nella definizione di un decorso positivo della malattia.
Il carattere femminile della malattia. La solitudine che caratterizza l’esperienza. Il senso di colpa e la vergogna. La sensibilità e la qualità cognitiva e percettiva dei soggetti coinvolti.
L’anoressico bulimica, vive una percezione differente che la porta a valutarsi come inadeguata alla vita. La forma. l’estetica, il corpo divengono lo strumento attraverso cui manifestare la propria sottrazione dai contesti relazionali e sociali. Ma cosa nasconde questo comportamento? L’esperienza e il contatto con queste donne, mette alla luce una qualità differente, una sensibilità capace di valutare e di fare critica, in numerosissimi casi la loro attitudine il loro senso di responsabilità verso l’altro e l’esterno è espresso al meglio, sono spesso prime, le migliori. Tutto vissuto nella paura di non essere in grado, di non essere all’altezza, di non corrispondere alle aspettative dell’altro. Inconsolabile paura, che si fa oppressione, catena, ansia, spaesamento, e allora il corpo a fare sintesi: la preoccupazione della forma, la necessità di piacere, l’emulazione dei modelli di riferimento, sono da interpretare come una resa: adeguarsi al modello che la propria sensibilità nega, per uscire dal proprio necessario, per meglio esporsi.
Il corpo: nicchia che sublima mancanze, o luogo estremo di purezza, come a riscattarsi dall’ordinario delle cose. Ma è tutto fragile, ciò che era considerata una sfida privata si muta in una profonda alterazione delle relazioni, e la necessità di intervenire sempre più impellente per ricostruire il tessuto identitario, per portare l’immagine interiore a coincidere col sé corpo, una pacificazione che sollecita all’ espressione, alla pienezza del dichiararsi. La necessità di sperimentare un contatto con la possibilità del fare, del poter oggettivare il proprio sentimento fuori da ogni paura, vivendo la paura consapevolmente.

Si fanno carico della vita queste donne, il loro sentire respira col mondo, e lo vorrebbero migliore.
Il mondo, ma anche il piccolo della famiglia, e un rapporto amoroso, vissuto nella pienezza dell’accoglimento e della generosità che sanno dare.

Malattia - male a dire

Malattia
di P.

Male a dire…
Fa male dire…
Ma dire cosa?
Dire a chi?

Nell'oscurità del mio cuore
non vedo
nel caos della battaglia
non sento - non sento
il grido d'aiuto

Fate silenzio perché io
possa sentire…
date luce perché io possa
vedere…
datemi voce perché io possa
parlare!

Con i miei segreti

Sempre in me
di M.

sempre in me come
un feto
raggomitolato su se stesso
nel buio, caldo liquido
di un ventre malato.
un ventre cuore / anima,
un ventre al tempo stesso rifugio
e discarica immonda
dove confluiscono lacrime,
vomito, disperazione
ma non c'è nascita
non c'è pianto liberatorio
aria, luce
per tanto tempo son rimasta
sempre in me
con i miei segreti
i miei problemi
le menzogne
e la solitudine dolorosa
ora potrei anche definirlo
autolesionismo
egocentrico e
presuntuoso
io sto bene con me stessa!
ricomincio a sentirmi
dopo tantissimi anni
di sdoppiamento schizzoide.

sempre in me
con una
smania autodistruttiva
che mi stava facendo
a pezzettini.
ancora oggi sempre in me,
tutto da rifare,
ancora troppo fragile
per andare da sola
ma ora ho chiesto aiuto.
ora ci sono altri con me.

"La prima anoressica di Milano"






















Pierluigi Panza
Il digiuno dell'anima

Bompiani, pp 128, euro 14.00

Lei è la “prima” anoressica di Milano, nessuno riuscirà a dare un nome al suo male. Era la ragazza che non si era mai sentita amata come avrebbe voluto.Una madre ed una figlia abitano le pagine de “Il digiuno dell’anima”, nell’immobilità di un interno borghese. Un ‘decoro’ che sgomenta: tutto è in ordine, immutabile, puro, ‘santo’. La famiglia recinto, la famiglia che scorda l’essenziale emozionale rifugiandosi nelle regole, nelle consuetudini, nel vuoto che solo la malattia altera, trasgredendo ogni decenza, ogni possibile difesa. Una storia tragica ma anche per molti versi paradossale quando saggiamo l’ostinazione e la determinazione di chi sceglie di ‘affamarsi’.Abbiamo letto molte storie di anoressia. Racconti di donne che scrivono il loro calvario, questa volta è un uomo ad accompagnarci in quel labirinto di ossessioni. Pierluigi Panza ci racconta la storia di una adolescente - lo fa in prima persona, come in un diario - lasciandola per scelta senza nome. “Anche se naturalmente si tratta di una ricostruzione, ho conosciuto questa ragazza, l’ho frequentata per molti anni e ho avuto modo di accedere ai suoi diari, su questo ho costruito il romanzo” spiega Panza. L’autore non vuole rivelare se la ragazza cui si ispira la storia è ancora viva, la protagonista del romanzo muore dopo trent’anni di dolore nei pressi di Siena, la città di quella Santa Caterina per cui la ragazza ha una vera ossessione.Milano rimane il centro della vicenda, una Milano ai tempi completamente colta alla sprovvista dalla malattia: “La popolazione comune nemmeno sapeva esistesse l’anoressia. I giornali non ne parlavano. Casi conclamati non emergevano. Non esistevano ospedali specializzati. Era il dopoguerra e per i primi borghesi alfabetizzati su larga scala che uscivano dall’universo della povertà, era davvero difficile pensare che il ‘non mangiare’ fosse una malattia”. Eppure qualche medico che si rese conto del fenomeno ci fu. “Tra i primi medici a seguire la prima anoressica ci fu una psicoterapeuta, ora scomparsa, che era proprio in quei mesi tornata dagli Stati Uniti e provava a studiare i primi casi di coscienza contemporanea del male. Ma era comunque troppo tardi: la ragazza era già avviata sulla strada della morte».Ora, a quarant’anni di distanza dall’inizio della storia narrata ne “Il digiuno dell’anima”, le psicopatologie legate ai disturbi alimentari sono così diffuse ed estese che è facile riconoscerle. Ma non altrettanto facile curarle e avvicinarle, almeno secondo Panza: “Sono contrario ai messaggi incoraggianti dei sopravvissuti. Negli elementi giovanili e più deboli ha l’effetto contrario a quello che si vuole ottenere: induce a pensare che si possa passare attraverso l’inferno, uscirne vivi e diventare protagonisti del mondo dei media. Inoltre i centri specializzati continuano ad essere pochissimi, privati e molto costosi anche se quelli di Milano sono tra i più avanzati. Inoltre sono gli stessi anoressici a non voler essere classificati: continuano, oggi come allora, a passare da gastroenterologia a psichiatria a neurologia. Il loro gioco fantastico, che è parte della malattia, consiste proprio nello sfuggire ad ogni classificazione”.

Le dichiarazioni di Pierluigi Panza sono tratte da un’articolo di Stefania Vitelli apparso su “Il Giornale” (11.06.2007)

mercoledì 3 ottobre 2007

Cara Emily...




























Versi di Emily Dickinson

Rimane oziosa l’anima
che ha ricevuto un colpo micidiale;
lo spazio della vita le si stende
davanti
senza nulla da fare.

E vi chiede lavoro-
fosse soltanto di appuntare spilli
o di fare il più misero rammendo
da bambini-
per aiutare le sue mani vuote.

-

Bevvi una sola sorsata di vita.
Vi dirò quanto la pagai:
precisamente un’esistenza.
E’ questo il prezzo sul mercato,dicono.

Mi pesarono,granello per granello
e bilanciarono fibra con fibra.
Poi mi porsero il prezzo del mio essere:
un solo sorso di cielo.

-

Morirono a metà dell’estate,
un tempo pieno e perfetto:
era l’estate chiusa su se stessa
nel suo colmo splendore.

Quando le ultime spighe maturavano
per essere falciate,
essi,attraverso la nebbia del sepolcro,
approdarono nella perfezione.

-

Un sepalo ed un petalo e una spina
in un comune mattino d’estate
un fiasco di rugiada,un’ape o due
una brezza,
un frullo in mezzo agli alberi-
ed io sono una rosa!


Emily Dickinson: chi è?
di L.


E’ difficile darne una definizione. Leggendo le sue poesie ho scoperto una donna tenace, ardita, desiderosa di far fluire fiumi di parole in poche righe, poesie incentrate sull’esistenza e sul rapporto con la morte; ma all’improvviso affiorano prati, fiori, lampi fulminanti di vibrazioni oscure, lancinanti che feriscono il cuore.
In questo turbinio di emozioni spuntano granelli di speranza che vedono l’amore per Dio come il solo motore che muove il mondo, punto di partenza e di arrivo, una spiaggia per naufraghi allo sbando.
Straordinaria la Dickinson quando affronta la tematica della morte: emerge apparentemente una tacita rassegnazione, invece si stratta di una solida consapevolezza, quella,cioè, che il sepolcro costituisce la sola certezza della vita. La mente inevitabilmente vola alla poetica foscoliana, alle sue “corrispondenze d’amorosi sensi”, ma qui il discorso è diverso e si fa più complesso perché per Foscolo il sepolcro è il ricordo del tempo che fu, e la quiete in cui riposano i grandi del passato che rivivono attraverso i vivi del presente e del futuro.
Emily,invece, si aggrappa all’Eden, si arrampica lungo le scalinate dell’Eternità, lancia tutta la sua sofferenza e la sua grandezza nella musa ispiratrice della poesia. Le sue parole, sia che descrivano un paesaggio,un bosco o un frutteto, o contemplino il volo dell’ape e dell’uccello, risuonano come musica.
Le corde della vita sembravo vibrare nell’eterno, ma il presaggio della fine, l’ombra della morte sono sempre in agguato. Si ritrova cosi quell’eco leopardiano che vede la speranza infranta dall’incombenza dell’arcano volto dell’illusione, del nulla.
La comprensione della nostra poetessa non può essere circoscritta ad una lettura rapida e superficiale, altrimenti si corre il rischio di coglierne un’interpretazione mesta e desolante. Invece la natura rigogliosa, il sole, i profumi della primavera ci permettono di respirare emozioni intense, penetranti, quasi immortali, ci armano di un carica vitale appparentemente impercettibile, ma che invece è densa, concreata, illuminante.
Leggere la Dickinson oggi significa accorgersi che accanto ad una realtà frenetica, indifferente, oltraggiosa esiste in un angolo di ogni animo un silenzio che richiede ascolto, che grida contro il cinismo e l’arroganza, che vede l’Eterno, che svela la grandezza, che aleggia l’Infinito, che assapora i profumi e gli odori, che coglie il lavoro di chi vive isolato, che contempla la quotidianità, che sogna i tramonti e le aurore,che abbandona le regole, le leggi, il tempo definito e razionale.
“Innamorarsi” della Dickinson è difficile: ella svela una ribellione interiore forte e decisa che si esprime e vive attraverso la poesia. Va apprezzata perché che una donna scriva, ai suoi tempi, nell’ottocento, era di certo considerato un fenomeno scandaloso e inacettabile, specie in presenza di una famiglia poco comprensiva nonostante fosse al centro di numerose attività sociali e culturali.Ecco perché personalmente ammiro il suo coraggio e la sua temerarietà che hanno raggiunto i nostri tempi e ci permettono di fruire di una personalità ricca, eclettica e dedita alla contemplazione.

L'anoressia ? Un autopunizione scelta...











Amélie Nothomb "Biografia della fame"

di A.dra

“In un mondo in cui tutto era contato, dove anche le porzioni più esagerate mi sembravano dettate da un razionamento, l'unico infinito affidabile era l'acqua, rubinetto aperto sulla sorgente eterna. Non so se la potomania fosse una malattia del mio corpo. Ci vedrei piuttosto la salute della mia anima: non era forse la metafora fisiologica del mio bisogno di assoluto?”.
Biografia della fame, esilarante libro della scrittrice belga Amélie Nothomb, è un'autentica ed eccentrica biografia in cui affronta, a volte con un agghiacciante umorismo, temi personalissimi: parla della sua famiglia, della sofferenza di un'adolescenza difficile e nomade al seguito di un padre diplomatico, trasferito dal Giappone alla Cina, da New York al Bangladesh, alla Birmania, al Laos; e poi ancora dell'amore simbiotico, nei confronti della sorella Juliette e dell'ammirazione completa per la madre.
Biografia della fame, è la storia di una ragazzina davvero esigente e dall'intelligenza spiccata, con un'infanzia vissuta come una divinità e narrata attraverso un centro egocentrismo infantile.
Attratta da una vena maoistica dell'esistenza e dei comportamenti umani, l'autrice considera l'anoressia come un'auto punizione scelta, voluta sino al limite della morte a soli 13 anni e poi combattuta dal fisico contro la mente, della passione contro l'intelletto: “la mia testa si arrese; il mio corpo si ribellò contro la mia testa. Rifiutò la morte”.
Amélie Nothomb parla dell'anoressia in modo quasi catartico: non esiste solo la fame fisica ma anche quella più intima degli affetti, delle sicurezze, degli amori: ”per fame intendo quel buco spaventoso di tutto l'essere, quel vuoto che attanaglia, quell'aspirazione non tanto all'utopica pienezza quanto alla semplice realtà:là dove non c'è niente,imploro che vi sia qualcosa”.
L'autrice apre il suo racconto soffermandosi sulla descrizione dell'unico popolo al mondo che non conosce la fame, quello delle isole dell'arcipelago Vanatu, un luogo che “...sembra quasi non interessi a nessuno”, dove non manca nulla, dove il nutrimento si trova senza fatica e la vita è talmente facile da diventare noiosa. Tutto ciò che arriva da quella parte del mondo è per la Nothomb insipido, privo di personalità ed interesse e ne spiega anche il motivo:”quella gente non sogna il cibo, non ha mai avuto fame, dalla notte dei tempi”.
Secondo la scrittrice, infatti, la fame è l'essenza della vita, della creatività, del passato e del futuro.
“La fame è il volere”,”...l'affamato è qualcuno che cerca...”. E proprio partendo da queste asserzioni
Amélie Nothomb prova a scrivere la propria biografia. Attraverso un linguaggio a volte buffo e commovente, a volte drammatico, descrive una bambina affamata di dolci, assetata di acqua come di liquori, di amore, di esperienze, di letture.
Il percorso autobiografico parte dal Giappone, vero paradiso terrestre che le viene tolto all'età di 5 anni. Poi si passa alla Cina maioista, nella quale prospera la fame, per arrivare a New York paese dell'abbondanza, dove vive da vera imperatrice. Alla fine si arriva all'esperienza del Bangladesh, “il Paese più povero del mondo e dove tutti hanno fame...”, passando per la Birmania e il Laos.
Il tutto vissuto mediante un'insaziabile fame per la vita, per qualcosa di sublime, per qualcosa che leva, che distingue e che permette di raggiungere l'infinito.
La pubertà e l'esperienza del Bangladesh, a stretto contatto con la magrezza di un intero popolo agonizzante, segnano in Amélie Nothomb uno strappo profondo, il rifiuto della metamorfosi del corpo di adolescente e, di conseguenza, la scelta della mortificazione, dell'ascesi e della privazione del cibo. Da questo momento è la sola mente a ricercare un nutrimento che tuttavia appare arido in quanto prescinde da ogni tipo di rapporto che non sia l'attaccamento viscerale alla sorella Juliette.
Paradossalmente l'assenza di fame viene considerata dalla Nothomb come vuoto che non aspira ad altro e piacere nel contemplare un corpo sempre più esile che però, autonomamente, contro la testa e il dolore, alla fine sceglie la vita.

"Voglio uscire da questa stanza. Voglio uscire da me."

Sempre in me
di E.
La stanza era buia.
Non completamente, ma poco illuminata,
come quelle stanze di quelle vecchie case che non hanno finestre,
ma magari solo un finestrino, lassù in alto,
da cui prendere un po’ di aria e un po’ di luce.

La stanza ha pareti alte, soffitto alto, muri di un bianco ingiallito dal tempo.
Pareti nude, squadrate.
Direi quasi “scivolose” perché non c’è niente che possa consentirti di arrampicarti:
non un buco, una rientranza nel muro dove mettere un piede.
Non una sporgenza cui potersi aggrappare con la mano e tirarsi su.
Pareti lisce. Pareti implacabili.

L’atmosfera è pesante, è cupa.
Si respira tristezza, si respira angoscia. C’è aria di prigione.
La stanza è vuota. C’è solo un tavolino, come un piccolo scrittoio.
Di legno, semplice, essenziale.
Che strano, non c’è neanche una sedia.
Che ci fa un tavolino, uno scrittoio dove scrivere senza una sedia per sedersi?
E che ci faccio io in questa stanza, sola con un tavolino senza sedia,
con un finestrino senza aria, tra pareti senza appigli per arrampicarsi?
Guardo bene, mi guardo intorno.
Il pavimento è di piastrelle grandi di marmo chiaro,
è proprio una casa “vecchia”, forse una casa della mia infanzia.

Mi sa tutto di vecchio in questa stanza, anche l’odore.
C’è umido, c’è chiuso, c’è tanfo.
Vedo una porta su una parete.
Non è centrale, è quasi ad angolo, un po’ nascosta.
E’ una porta di legno, color legno. Legno caldo.
Che strano, mi sarei aspettata una porta bianca in questa stanza.
Una di quelle porte strette e lunghe.
Quelle belle porte laccate di bianco a due ante delle nostre case di un tempo.
Quelle porte che quasi si mimetizzano con la parete.
E invece no. Questa porta è scura ma non troppo, è un bel legno bruno.
Un colore che sa di forte, che sa di caldo, che sa di solido.
La porta non è alta e stretta, ma semmai è un po’ più bassa della norma.
E’ una bella porta comunque, proporzionata.
Abbastanza larga. Sembra comoda da passarci.
Eppure c’è qualcosa che non quadra, ma non capisco cosa.
Poi capisco. In questa bella porta, calda, forte e sicura, non c’è la maniglia.
Mi viene l’ansia, mi sale l’angoscia.
Non voglio restare prigioniera in questa stanza!
Mi calmo, respiro profondamente, respiro “lungo”.
Se sono qui vuol dire che ci sono entrata.
Vuol dire che da questa porta ci sono passata.
Non so come ho fatto. Forse c’era la maniglia solo fuori?
Non lo so. So che da questa stanza se sono entrata posso anche uscire.
So che c’è un passaggio, so che c’è una porta.
La vedo, anche se non vedo la maniglia.
Ma se ci sono entrata di sicuro ne posso uscire.
E’ solo questione di direzione.

Sono sola in questa stanza,
ma non posso credere che fuori non c’è nessuno.
E allora so cosa fare.
Mi metto dietro la porta e busso.
Busso ancora. Busso forte. E chiamo. E urlo. E chiedo aiuto.
Perché voglio uscire adesso.
Voglio uscire da questa stanza.
Voglio uscire da me.
Prima o poi qualcuno passerà.