Si terra a Lecce il 18, 19, 20 settembre, "Pe(n)sa differente".
Prima manifestazione nazionale di sensibilizzazione sul peso naturale
Pe(n)sa differente fa parte del progetto nazionale:
Le buone pratiche di cura e la prevenzione sociale dei Disturbi del Comportamento Alimentare,
coordinato dal Ministero per le Politiche Giovanili e le Attività Sportive e dal Ministero della Salute
e da Salomè onlus.
di Mauro Marino
“Un giorno senza sorriso è un giorno perso”
Charlie Chaplin
Cercare il sorriso. Scovarlo, sollecitarlo, nascosto dentro le pieghe del tempo. La malattia toglie il respiro. Non c’è orizzonte e ogni gratificazione si svuota, logora la sua efficacia, via via scompare. Sbigottisce. Lascia terreno al nulla dell’ossessione.
Li conosciamo i meccanismi pervasivi del non esserci. Togliersi la vita è negarsi il futuro: il sorriso.
Sul dizionario leggiamo: “Un sorriso può essere più o meno sincero e spontaneo, e non sempre sottintende un atteggiamento di apertura verso l'altro quanto piuttosto l'espressione di un personale stato d'animo”.
Quello stato d'animo ci riguarda, quando l'assedio chiude ogni spiraglio.
Quando il sorriso non allarga più gli occhi!
C'è un sé che sorride, che si apre, che si dispone ad accoglier e a dare.
Quel se, dobbiamo cercare, ri/trovare, svezzare nell'oblio del mal d'animo. La cultura, il laboratorio, la comunicazione possono essere utili alleati di una strategia di cura.
Mettere le mani, gli occhi, il pensiero, la parola al fare. Questo il percorso, per ritessere la fiducia!
Trovarsi in un opera non è “specchiarsi” nel vuoto di un corpo che non si risponde, è la possibilità di contemplare il tempo.
Ho chiesto a cosa pensi mentre fai questo “ricamo”? “A niente!”, mi ha risposto.
Una vittoria allora! Distrarsi, tentare di trovare acquietamento, pace! Dimenticarsi, de/pensare. Staccarsi da sé e trovarsi nell’opera.
Di fronte “musi” lunghi, le mani tengono la pancia. E' duro riabituarsi al cibo, stare alla regola della proposta di cura. Sentirsi gonfia, dover trattenere il cibo... “e questi intorno cosa vogliono? Che c'entro io qui? Non sono malata! La mia non è una malattia!”.
Come fare?
Leggere, scrivere, guardare. Parlare. Sciogliere il nodo.
E allora, al lavoro! Trovare nuovi scopi. Tentare un dialogo col proprio sentire: ogni “no”, si faccia oggetto d’arte. Ogni “no” comunichi, cresca relazioni, riconsegni fiducia, sorrisi.
Lavorare con gli occhi, lavorare con le mani, dare forma al silenzioso scorrere dei righi, impiastricciarsi le dita di colla, di colore, riempirsi di suoni. Ogni cosa può farsi poesia, gioco di suoni che “agiscono” immagini. Ricostruiscono l’immaginario. Tolgono l’assedio. Curano l’errore, un divenire che impara a calibrare il tempo dell’arte, si oggettiva in piccole opere dove poveri materiali si nobilitano concorrendo a narrare visioni, stupori, sbigottimenti, paure.
Ogni parola, ogni verso, ogni atto creativo è scrigno di senso. Senso che moltiplica valori e messaggi in interpretazioni che trovano il dire, lo svelamento del proprio sentire.
Serve l’atto poetico alla cura? Qualcuno mi ha confidato con grafia via via sempre più decisa che: “Scrivere è una tecnica per tenermi a bada.
Ascoltare il mio corpo sulla soglia: forse ne ho bisogno per me stessa”.
Si, serve! La scrittura, la poesia, una riaffezione alla “cultura”, al suo pieno significativo.
Lo sappiamo in essa, nelle socializzazioni mediatiche troviamo fattori di rischio (inquietanti ormai, con la loro invadenza) ma anche possibili leve di prevenzione e di cura.
Su questo è necessario concentrare azioni, una coralità capace di accogliere il tempo della cura ciò che in esso si genera come motore di un nuovo guardarsi.
La cultura è fiducia, costruzione, il fare creativo è metodo e orizzonte.
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