Il Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare, DSM-Asl di Lecce, dalla sua fondazione ha elaborato momenti di sensibilizzazione e di approfondimento teorico, che si sono rivelati capaci di definire un’immagine di apertura e di disponibilità che ha permesso a molte giovani donne di avvicinarsi al Centro, senza la preoccupazione o l’angoscia di svelare il proprio sintomo, senza la sensazione di cadere nell’abisso sconosciuto che la cura spesso rappresenta. L’esperienza di questi anni di lavoro ci ha permesso di muovere, sperimentare e verificare la ricerca e la messa a punto di percorsi terapeutici aprendoci all’esterno con la costruzione di eventi mirati, capaci di approcci interdisciplinari, nell’intento di determinare una forte relazione tra istanze medico-sanitarie, ricerca, approfondimento scientifico, possibilità espressive e necessità di comunicazione. sensibilizzazione e aggregazione. L’arte, il lavoro creativo, il contatto nel territorio con esperienze significative di azione culturale, l’approfondimento scientifico sono state le leve con cui il nostro centro ha costruito la relazione con l’esterno, aggregando e dando corpo alla sua realtà operativa e terapeutica. È una ricerca che riflettendo sulla realtà socio-culturale, sui suoi limiti partecipativi e valoriali, cerca dire emozioni, affetti, necessità, prova ad esprimere - dentro tensioni che scelgono la poesia, il collage grafico, la fotografia, il video, il teatro, la danza - le difficoltà e le involuzioni che hanno dato vita al sintomo e al manifestarsi della malattia.
È possibile elaborare un modo diverso per incontrare ed affrontare il disagio e quegli ambiti di crisi comportamentale e sociale che manifestandosi muovono una forte critica ai sistemi culturali e di relazione?
È possibile un’altra comunicazione?
Lo stigma del disagio fà del corpo un ambito fortemente simbolico, uno strumento di costruzione e di elaborazione di sintomi che si fanno metafora e messaggio. L’ immagine del corpo sublima un sentire, una differenza, una mancanza, definendo un ambito eroico dell’ esistere, che ha bisogno di essere compreso, accudito, valorizzato e soprattutto attivato, per poter mutare segno, facendosi pienezza di lingua, motore capace di affermare la qualità differente del proprio sé. Se il sintomo che si manifesta comunica qualcosa della persona che ne è portatrice, occorre parlare la sua lingua.
Come rispondere a quello smarrimento, a quel sentimento di inadeguatezza così fortemente critico nei riguardi dell’ ordinario della vita, che non corrisponde aspettative, che profondamente delude la sensibilità di chi sente di doversi sottrarre, senza immaginare di reagire, inoltre alla fragilità del proprio sé, punito, mortificato, svuotato di vita?
Una sofferenza che coinvolge tutti i livelli di una persona, che altera profondamente i rapporti affettivi e relazionali, non può essere affrontata e risolta da terapeuti che si occupano esclusivamente del sintomo ignorando tutto il resto. é necessario un contatto fortemente creativo, al di là di procedure standardizzate: ogni persona ha una dignità ed una propria cultura che valgono in quanto tali, al di là dell’aspetto corporeo è necessario cercare di definire possibilità di espressione, di oggettivazione della propria differenza sentimentale ed emozionale, per riportarla ad una normalità, ad una quiete, ad una pienezza comunicativa.
La malattia si deve fare esperienza, cammino di consapevolezza. che chbiarifica e riconosce le necessità, nell’elaborazione del dolore. E’ utile una manovra larga, una manovra di umiltà da parte di chi ha inteso fino ad ora la possibilità di una specializzazione della ricerca in un senso unico ed esclusivo, tralasciando o dimenticando la possibilità di un percorso di integrazione tra competenze, capace di affiancare conoscenze e pratiche, mobilitate a porsi il problema del disagio nel suo intero problematico, fuori da una logica dell’intervento nell’emergenza per un progetto di umanesimo concreto, che riflette sulla qualità del vivere per tracciare un quadro di risoluzione concreto, realistico e soprattutto coraggioso.
L’apertura all’esterno, la pratica di sensibilizzazione, la necessità di stimolare un’adesione volontaria di chi si sente coinvolto nella necessità della cura, sono motivi di affinamento di pratiche comunicative ed aggregative, capaci di definire una strategia che, riflettendo sulla qualità della vita, definisce approcci di approfondimento e di critica propositiva e la messa in opera di politiche volte alla prevenzione. I territori di pratica dunque cambiano, smettono la loro veste burocratico - istituzionale, per aprirsi all’incontro.
C’è una forte particolarità dei soggetti coinvolti nell’ esperienza anoressico - bulimica che è bene delineare, per meglio comprendere quanto la proposta creativa, in questo tipo di malattia, può essere utile alleato nella definizione di un decorso positivo della malattia.
Il carattere femminile della malattia. La solitudine che caratterizza l’esperienza. Il senso di colpa e la vergogna. La sensibilità e la qualità cognitiva e percettiva dei soggetti coinvolti.
L’anoressico bulimica, vive una percezione differente che la porta a valutarsi come inadeguata alla vita. La forma. l’estetica, il corpo divengono lo strumento attraverso cui manifestare la propria sottrazione dai contesti relazionali e sociali. Ma cosa nasconde questo comportamento? L’esperienza e il contatto con queste donne, mette alla luce una qualità differente, una sensibilità capace di valutare e di fare critica, in numerosissimi casi la loro attitudine il loro senso di responsabilità verso l’altro e l’esterno è espresso al meglio, sono spesso prime, le migliori. Tutto vissuto nella paura di non essere in grado, di non essere all’altezza, di non corrispondere alle aspettative dell’altro. Inconsolabile paura, che si fa oppressione, catena, ansia, spaesamento, e allora il corpo a fare sintesi: la preoccupazione della forma, la necessità di piacere, l’emulazione dei modelli di riferimento, sono da interpretare come una resa: adeguarsi al modello che la propria sensibilità nega, per uscire dal proprio necessario, per meglio esporsi.
Il corpo: nicchia che sublima mancanze, o luogo estremo di purezza, come a riscattarsi dall’ordinario delle cose. Ma è tutto fragile, ciò che era considerata una sfida privata si muta in una profonda alterazione delle relazioni, e la necessità di intervenire sempre più impellente per ricostruire il tessuto identitario, per portare l’immagine interiore a coincidere col sé corpo, una pacificazione che sollecita all’ espressione, alla pienezza del dichiararsi. La necessità di sperimentare un contatto con la possibilità del fare, del poter oggettivare il proprio sentimento fuori da ogni paura, vivendo la paura consapevolmente.
Si fanno carico della vita queste donne, il loro sentire respira col mondo, e lo vorrebbero migliore.
Il mondo, ma anche il piccolo della famiglia, e un rapporto amoroso, vissuto nella pienezza dell’accoglimento e della generosità che sanno dare.
È possibile elaborare un modo diverso per incontrare ed affrontare il disagio e quegli ambiti di crisi comportamentale e sociale che manifestandosi muovono una forte critica ai sistemi culturali e di relazione?
È possibile un’altra comunicazione?
Lo stigma del disagio fà del corpo un ambito fortemente simbolico, uno strumento di costruzione e di elaborazione di sintomi che si fanno metafora e messaggio. L’ immagine del corpo sublima un sentire, una differenza, una mancanza, definendo un ambito eroico dell’ esistere, che ha bisogno di essere compreso, accudito, valorizzato e soprattutto attivato, per poter mutare segno, facendosi pienezza di lingua, motore capace di affermare la qualità differente del proprio sé. Se il sintomo che si manifesta comunica qualcosa della persona che ne è portatrice, occorre parlare la sua lingua.
Come rispondere a quello smarrimento, a quel sentimento di inadeguatezza così fortemente critico nei riguardi dell’ ordinario della vita, che non corrisponde aspettative, che profondamente delude la sensibilità di chi sente di doversi sottrarre, senza immaginare di reagire, inoltre alla fragilità del proprio sé, punito, mortificato, svuotato di vita?
Una sofferenza che coinvolge tutti i livelli di una persona, che altera profondamente i rapporti affettivi e relazionali, non può essere affrontata e risolta da terapeuti che si occupano esclusivamente del sintomo ignorando tutto il resto. é necessario un contatto fortemente creativo, al di là di procedure standardizzate: ogni persona ha una dignità ed una propria cultura che valgono in quanto tali, al di là dell’aspetto corporeo è necessario cercare di definire possibilità di espressione, di oggettivazione della propria differenza sentimentale ed emozionale, per riportarla ad una normalità, ad una quiete, ad una pienezza comunicativa.
La malattia si deve fare esperienza, cammino di consapevolezza. che chbiarifica e riconosce le necessità, nell’elaborazione del dolore. E’ utile una manovra larga, una manovra di umiltà da parte di chi ha inteso fino ad ora la possibilità di una specializzazione della ricerca in un senso unico ed esclusivo, tralasciando o dimenticando la possibilità di un percorso di integrazione tra competenze, capace di affiancare conoscenze e pratiche, mobilitate a porsi il problema del disagio nel suo intero problematico, fuori da una logica dell’intervento nell’emergenza per un progetto di umanesimo concreto, che riflette sulla qualità del vivere per tracciare un quadro di risoluzione concreto, realistico e soprattutto coraggioso.
L’apertura all’esterno, la pratica di sensibilizzazione, la necessità di stimolare un’adesione volontaria di chi si sente coinvolto nella necessità della cura, sono motivi di affinamento di pratiche comunicative ed aggregative, capaci di definire una strategia che, riflettendo sulla qualità della vita, definisce approcci di approfondimento e di critica propositiva e la messa in opera di politiche volte alla prevenzione. I territori di pratica dunque cambiano, smettono la loro veste burocratico - istituzionale, per aprirsi all’incontro.
C’è una forte particolarità dei soggetti coinvolti nell’ esperienza anoressico - bulimica che è bene delineare, per meglio comprendere quanto la proposta creativa, in questo tipo di malattia, può essere utile alleato nella definizione di un decorso positivo della malattia.
Il carattere femminile della malattia. La solitudine che caratterizza l’esperienza. Il senso di colpa e la vergogna. La sensibilità e la qualità cognitiva e percettiva dei soggetti coinvolti.
L’anoressico bulimica, vive una percezione differente che la porta a valutarsi come inadeguata alla vita. La forma. l’estetica, il corpo divengono lo strumento attraverso cui manifestare la propria sottrazione dai contesti relazionali e sociali. Ma cosa nasconde questo comportamento? L’esperienza e il contatto con queste donne, mette alla luce una qualità differente, una sensibilità capace di valutare e di fare critica, in numerosissimi casi la loro attitudine il loro senso di responsabilità verso l’altro e l’esterno è espresso al meglio, sono spesso prime, le migliori. Tutto vissuto nella paura di non essere in grado, di non essere all’altezza, di non corrispondere alle aspettative dell’altro. Inconsolabile paura, che si fa oppressione, catena, ansia, spaesamento, e allora il corpo a fare sintesi: la preoccupazione della forma, la necessità di piacere, l’emulazione dei modelli di riferimento, sono da interpretare come una resa: adeguarsi al modello che la propria sensibilità nega, per uscire dal proprio necessario, per meglio esporsi.
Il corpo: nicchia che sublima mancanze, o luogo estremo di purezza, come a riscattarsi dall’ordinario delle cose. Ma è tutto fragile, ciò che era considerata una sfida privata si muta in una profonda alterazione delle relazioni, e la necessità di intervenire sempre più impellente per ricostruire il tessuto identitario, per portare l’immagine interiore a coincidere col sé corpo, una pacificazione che sollecita all’ espressione, alla pienezza del dichiararsi. La necessità di sperimentare un contatto con la possibilità del fare, del poter oggettivare il proprio sentimento fuori da ogni paura, vivendo la paura consapevolmente.
Si fanno carico della vita queste donne, il loro sentire respira col mondo, e lo vorrebbero migliore.
Il mondo, ma anche il piccolo della famiglia, e un rapporto amoroso, vissuto nella pienezza dell’accoglimento e della generosità che sanno dare.
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