mercoledì 3 ottobre 2007

L'anoressia ? Un autopunizione scelta...











Amélie Nothomb "Biografia della fame"

di A.dra

“In un mondo in cui tutto era contato, dove anche le porzioni più esagerate mi sembravano dettate da un razionamento, l'unico infinito affidabile era l'acqua, rubinetto aperto sulla sorgente eterna. Non so se la potomania fosse una malattia del mio corpo. Ci vedrei piuttosto la salute della mia anima: non era forse la metafora fisiologica del mio bisogno di assoluto?”.
Biografia della fame, esilarante libro della scrittrice belga Amélie Nothomb, è un'autentica ed eccentrica biografia in cui affronta, a volte con un agghiacciante umorismo, temi personalissimi: parla della sua famiglia, della sofferenza di un'adolescenza difficile e nomade al seguito di un padre diplomatico, trasferito dal Giappone alla Cina, da New York al Bangladesh, alla Birmania, al Laos; e poi ancora dell'amore simbiotico, nei confronti della sorella Juliette e dell'ammirazione completa per la madre.
Biografia della fame, è la storia di una ragazzina davvero esigente e dall'intelligenza spiccata, con un'infanzia vissuta come una divinità e narrata attraverso un centro egocentrismo infantile.
Attratta da una vena maoistica dell'esistenza e dei comportamenti umani, l'autrice considera l'anoressia come un'auto punizione scelta, voluta sino al limite della morte a soli 13 anni e poi combattuta dal fisico contro la mente, della passione contro l'intelletto: “la mia testa si arrese; il mio corpo si ribellò contro la mia testa. Rifiutò la morte”.
Amélie Nothomb parla dell'anoressia in modo quasi catartico: non esiste solo la fame fisica ma anche quella più intima degli affetti, delle sicurezze, degli amori: ”per fame intendo quel buco spaventoso di tutto l'essere, quel vuoto che attanaglia, quell'aspirazione non tanto all'utopica pienezza quanto alla semplice realtà:là dove non c'è niente,imploro che vi sia qualcosa”.
L'autrice apre il suo racconto soffermandosi sulla descrizione dell'unico popolo al mondo che non conosce la fame, quello delle isole dell'arcipelago Vanatu, un luogo che “...sembra quasi non interessi a nessuno”, dove non manca nulla, dove il nutrimento si trova senza fatica e la vita è talmente facile da diventare noiosa. Tutto ciò che arriva da quella parte del mondo è per la Nothomb insipido, privo di personalità ed interesse e ne spiega anche il motivo:”quella gente non sogna il cibo, non ha mai avuto fame, dalla notte dei tempi”.
Secondo la scrittrice, infatti, la fame è l'essenza della vita, della creatività, del passato e del futuro.
“La fame è il volere”,”...l'affamato è qualcuno che cerca...”. E proprio partendo da queste asserzioni
Amélie Nothomb prova a scrivere la propria biografia. Attraverso un linguaggio a volte buffo e commovente, a volte drammatico, descrive una bambina affamata di dolci, assetata di acqua come di liquori, di amore, di esperienze, di letture.
Il percorso autobiografico parte dal Giappone, vero paradiso terrestre che le viene tolto all'età di 5 anni. Poi si passa alla Cina maioista, nella quale prospera la fame, per arrivare a New York paese dell'abbondanza, dove vive da vera imperatrice. Alla fine si arriva all'esperienza del Bangladesh, “il Paese più povero del mondo e dove tutti hanno fame...”, passando per la Birmania e il Laos.
Il tutto vissuto mediante un'insaziabile fame per la vita, per qualcosa di sublime, per qualcosa che leva, che distingue e che permette di raggiungere l'infinito.
La pubertà e l'esperienza del Bangladesh, a stretto contatto con la magrezza di un intero popolo agonizzante, segnano in Amélie Nothomb uno strappo profondo, il rifiuto della metamorfosi del corpo di adolescente e, di conseguenza, la scelta della mortificazione, dell'ascesi e della privazione del cibo. Da questo momento è la sola mente a ricercare un nutrimento che tuttavia appare arido in quanto prescinde da ogni tipo di rapporto che non sia l'attaccamento viscerale alla sorella Juliette.
Paradossalmente l'assenza di fame viene considerata dalla Nothomb come vuoto che non aspira ad altro e piacere nel contemplare un corpo sempre più esile che però, autonomamente, contro la testa e il dolore, alla fine sceglie la vita.

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